domenica, marzo 22

Suicide candy

Pillole dal cinema koreano. Anzi, caramelle alla menta, e binari, treni, lacrime, donne deluse e uomini violentati. Yong-ho è il protagonista di questo film-racconto a ritroso, che precorre la struttura di Memento di Christopher Nolan. Yong-ho è un tale sconvolto che esprime in punto di morte la volontà di tornare indietro, e il regista lo asseconda. Scopriamo come ha disimparato ad amare, come ha picchiato, tradito, ucciso, pianto ed infine raccolto un fiore. La vita l'ha messo davanti a traumi di livello profondo, e lui si è sgretolato ma è sopravvisuto a tutti. Forse quello che ha dovuto affrontare ha strappato dalle sue mani una dolcezza originaria, forse la sua mente non ha mai avuto una quiete reale.
Il nostro Yong-ho va avanti fino all'ultima prova, la scena con cui il film si apre: la rimpatriata, il pic nic a cui partecipa dopo 20 anni con gli amici di un tempo, davanti allo stesso fiume. Aveva retto tutto, ma sotto tale peso lui crolla e abbandona l'ultimo sforzo di sopravvivenza.
Alcuni elementi che ricorrono nella nostra esperienza sono dei fil rouge, dei segni che ci danno un senso e uno spessore, ci rendono persone che non sarebbero le stesse se resettassero la memoria ad ogni alba. Le caramelle alla menta di Yong-ho sono le madeleine di Proust, ma anche una maledizione a confrontarsi un passato che non abbiamo saputo vincere.
E tra tutti gli incubi che ricorrono nelle notti degli adulti di oggi, c'è quello di dover ripetere l'esame di maturità, oppure di dover sostenere un'interrogazione di fisica della quale non riusciamo più a completare le formule. Una tragedia contemporanea si consuma nelle scene di
Compagni di scuola di Carlo Verdone.
Sarebbe un sollievo staccare e recidere laddove non serve tornare, conservando soltanto la sensibiltà e la forza che la sofferenza piccola ma continua ci ha lasciato. Ma tagliare non si può, non si eliminano gli ex ed il loro odore, se non nella trama di altri film come Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, non si inghiottiscono certe angherie davanti alle quali ci hanno trovato fragili. Forse si potrebbe cercare di imparare a ridere, dopo aver pianto e urlato per noi stessi e per il presente che è passato, su di noi. In Peppermint candy, nonostante la comicità insita in certi personaggi, questa risata non c'è stata.

lunedì, marzo 9

Un destino chiamato vagina

Sono sempre stata ossessionata dall’idea di dare un nome alle cose. Se potevo dare loro un nome, potevo conoscerle. Se potevo dar loro un nome, po­tevo dominarle. Potevano essere mie amiche.


Nei monologhi della vagina, la parola che ricorre maggiormente è proprio "vagina". Eve Ensler ha scritto un racconto distillando oltre duecento storie di donne incontrate durante interviste a tema esplicitamente genitale. L'incontro dell'autrice con ragazze e signore di ogni età incrementa l'appeal del contenuto. L'8 di marzo è la data in cui il suo spettacolo viene proposto al pubblico fiorentino, in teatro e in libreria. La festa della donna diventa la festa della vagina, dell'orgoglio di averla. The V-day, appuntamento di identità di genere.
"Donna" è il nome che si dà a una femmina, a colei che è nata con la vagina ed è culturalmente indirizzata a comportarsi vestendo ruoli, compiti, incubi e abiti da donna. I monologhi della vagina sono discorsi intorno alla relazione della femmina con i propri genitali, con la sessualità in essi contenuta, con l'affetto, i traumi, gli eufemismi, i tabu della fica.
Tra il pubblico ci sono uomini che ridono alle battute, alcuni baciano più volte la testa delle loro fidanzate, altri non sono presenti, non erano interessati o coinvolti dalla tematica. Alcuni di loro sbagliano il titolo riferendosi ai "dialoghi della vagina", quasi a riprodurre l'idea maschilista di una donna incompleta se non protesa verso un uomo, non adatta a masturbarsi. Eppure la vagina è la porta della vita per tutti, uomini, donne, animali. Niente di più semplice e carnale, niente di più complicato da simbologie e sistemi di comportamento che in tempi di repressione tendono all'etereo, all'immateriale.
Ascoltare argomenti di solito evitati o sussurrati che invece acquisiscono la completezza della pronuncia ad alta voce, ti diverte. A tratti comunque ti fa storcere sulla sedia, trovi a chiederti come è meglio incrociare le braccia sopra al petto: il monologo ti illumina
l'inguine c
on un faro, le posture con cui lo siedi. Che linea sottile divide l'orgoglio dell'ostentazione dall'accusa di provocazione? Non sono soltanto le signore cresciute prima del '68 ad avere schemi rigidi in cui inserire le proprie cavità, i liquidi, gli odori, il/la clitoride.

The New York Times, 12 aprile 1996
La mia vagina è arrabbiata. Davvero. È incazzata.
La mia vagina è furiosa e ha bisogno di parlare. Ha bisogno di parlare di tutta questa merda. Ha biso­gno di parlarvi. Allora, cos’è questa faccenda... C’è in giro un esercito di persone, che escogitano mo­di per torturare la mia povera, gentile e amorevole vagina... Che passano i giorni a fabbricare psico­prodotti e idee orrende per minare la mia passera. Rompicoglioni della vagina!
Tutta questa merda che cercano senza sosta di spingerci dentro, per pulirci, per imbottirci, la fa­ranno scomparire. Bene, la mia vagina non se ne andrà. È incazzata e se ne starà qui. Prendi i tam­poni... che diavolo è ‘sta roba? Un fottuto tampone di cotone asciutto, infilato dentro. Perché non tro­vano un modo per lùbrificare leggermente il tam­pone? Appena la mia vagina lo vede, ha uno choc. Dice: “Lascia perdere”. Si chiude. Dovete saperci fare con la vagina, prepararla alle cose. E tutta una faccenda di preliminari. Dovete convincere la mia vagina, sedurre la mia vagina, suscitare la fiducia della mia vagina. Non potete riuscirci con un fot­tuto tampone di cotone asciutto.


Propongo un esercizio a donne e uomini di questi tempi, per sondare quanto i nostri pudori siano iscritti nel monologo del nostro corpo: dare risposta a queste 2 domande tratte dal testo della Ensler.
uno, Se la vagina si vestisse, che cosa indosserebbe?
due, Se la vagina potesse parlare, che cosa direbbe, in due parole?

domenica, marzo 1

Pronto intervento gioia

Le immagini dell'infanzia sono oggetti da difendere. Ci si augura che raccontino, per la maggior parte di noi, quel periodo felice per antonomasia, spensierato e coccolato. In esse le relazioni di affetto che ci hanno supportato si esplicitano in mani che sorreggono, in cappellini protettivi messi sulla testa di piccoli bagnanti o di contadinelle in erba, in sguardi e sorrisi diffusi con attenzione.
La stessa cura che ci ha cresciuti, impariamo ad applicarla nella vita da adulti alla costruzione della felicità. Per alcuni è fatta di figli, a cui rendere e da cui prendere quei gesti d'amore. Altri si prefiggono obiettivi scolastici e poi lavorativi, che sono comunicati da una commissione, da una telefonata della segreteria, da una lettera.
Ricevo ieri una busta dall'Ordine dei Giornalisti della Toscana. Nella finestrella del destinatario ci sono 4 righe di parole che descrivono gli obiettivi raggiunti da me nell'ultimo anno.

Giornalista Pubblicista
cognome e nome
via indirizzo di casa mia
Firenze FI

Ottenere la nomina per cui abbiamo trovato e sopportato un lavoro valido come praticantato, firmare il contratto di acquisto della prima casa, in una città diversa da quella in cui siamo nati, sono momenti di gioia da proteggere. Le persone non tendono a godere della gioia altrui, anzi sono solite salutarla con circostanza e poi prenderne una distanza. Se qualcuno raggiunge un obiettivo, in questa società competitiva, si pensa subito a dove siamo noi, all'utilità che possiamo trarne, a cosa invece quella persona non ha: disinteresse, opportunismo, paranoia, invidia. I momenti di sfiga suscitano un'empatia più diretta intorno a chi riesce a comunicarli, la compassione è un motore aggregante. Paperino sta a tutti più simpatico che Topolino. Fin da piccoli alcuni di noi imparano ad abbassare la voce per comunicare di aver preso un ottimo voto, a sminuirlo.. a qualcuno i nostri successi danno noia. Impariamo a comunicarli con ironia, ad essere scettici al loro riguardo. A volte troppo.
La seconda cosa da coltivare e proteggere dopo la felicità è una cassa di risonanza per le proprie gioie, un gruppo di relazioni che sappiano riderne e vogliano estenderle con un brindisi, con un entusiasmo imbarazzato, con un'attenzione pulita. E come si sceglie a chi mostrare le foto dell'infanzia, che mettono a nudo bambini che conosciamo anche senza aver conosciuto, dentro gli adulti che frequentiamo, anche per la gioia è utile un'abilità selettiva.
La vulnerabilità e la fugacità dei momenti di felicità pretendono che siamo furbi e sappiamo difenderli. La persona felice è come una lucciola da rispettare, luminosa e fragile. La condizione che vive è un regalo per lei e per coloro con cui si vuole bene, che si laureano e che stanno per partorire, che ricevono le risposte sperate nelle analisi del sangue, che iniziano a convivere con qualcuno, che espongono i propri quadri, che hanno trovato la loro piramide sessuale, che ottengono un incentivo sul lavoro. Credo che questi amici o amanti di cui ci accolliamo di difendere la gioia, non superino in numero le dita delle mani. E anche nei palmi più ciccosi, tranne casi di fortuna genetica, le dita non sono più di 5. Trovo intelligente e produttivo esercitarsi ad aumentare la nostra risonanza alla gioia, piuttosto che la somma delle lamentele. Più abili, meno alibi. Come dice Osho:
“Se non sei egoista, non sarai generoso; solo una persona profondamente egoista può essere altruista. Ma questo va compreso, perché sembra un paradosso.[...] Se tutti intorno a te sono infelici, non puoi essere felice, perché l’uomo non è un’isola, è parte di un grande continente. Se vuoi essere felice, dovrai aiutare coloro che ti circondano a esserlo; allora, e solo allora, potrai essere felice. L’amore, per me, è una delle cose più egoiste che esistano.”